Il Teatro dell'architettura, 'spina nel fianco' dell'Accademia

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Servizio comunicazione istituzionale

9 Gennaio 2019

Il Teatro dell'architettura Mendrisio è stato inaugurato nell'ottobre 2018 con una mostra esclusiva sull'architetto Louis Kahn. L’edificio polifunzionale, progettato da Mario Botta, è una componente chiave nel progetto di ampliamento del campus di Mendrisio. Riccardo Blumer, direttore dell'Accademia, ci parla della nuova struttura, di se stesso e dei suoi progetti.

 

Mario Botta dice che il nuovo edificio è come una "spina nel fianco" dell'Accademia, o come “un tamburo che ci tiene svegli e consapevoli di ciò che ci circonda”. Potrebbe spiegare questi concetti e il loro significato intrinseco?

Per rispondere alla domanda bisogna innanzitutto considerare che le scuole pubbliche, contrariamente a quanto normalmente si sarebbe propensi a credere, sono istituzioni "chiuse", aperte principalmente a studenti e docenti, che vi accedono per imparare e insegnare. Professori e docenti dovrebbero essere il punto di contatto degli studenti con il mondo, ma questo rapporto si svolge essenzialmente in un contesto che definirei “privato”. Quindi, in che modo un’università si apre al mondo e al pubblico? In generale, lo fa attraverso conferenze o pubblicando articoli scientifici, due attività forse le più ovvie, oppure interagendo con il mondo imprenditoriale o industriale, come già facciamo all'Accademia sebbene limitatamente, oppure indirettamente tramite gli studenti e il loro inserimento nella società. Ecco quindi che il Teatro funge da veicolo per il confronto diretto della Scuola con il mondo, un confronto pubblico che per me è uno degli esercizi più interessanti che una Scuola possa fare. Nelle mie mise-en-scène del primo anno ho l’abitudine di portare i miei ca. 140 studenti sempre davanti un pubblico, ed è proprio quando sono davanti al pubblico che si vede il vero esercizio di confronto, perché è in quel momento che si ha la misura. Noi esistiamo di riflesso, e il riflesso più grosso e importante è il pubblico – ed è il confronto che ci tiene svegli. Quando Mario Botta parlò della ‘spina nel fianco’, si riferiva all’Accademia di architettura, che in realtà vorrebbe essere una spina nel fianco del mondo.

 

Come vede il ruolo dell’architetto di oggi, in particolare la sua indipendenza nei confronti delle questioni fra settore privato e pubblico?

L’architetto deve imparare a farsi rispettare e, al contempo, deve imparare a essere indispensabile, in quanto, a differenza di chi lo paga, è in grado di ideare progetti architettonici e quindi culturali. Un bravo architetto insegna e impara contemporaneamente. I problemi nascono nel momento in cui il cliente che non ha voglia adattarsi a questo metodo di apprendimento. Un bravo architetto dovrebbe rinunciare al progetto in questo caso. Dove non si vede la possibilità del Progetto (con la P maiuscola), cioè di qualcosa che dà senso all’esistere come architetto di questa società, bisogna essere capaci di rinunciare. Io stesso, come Mario Botta, abbiamo più volte rinunciato a dei progetti dove sentivamo che non si veniva portati in una zona di conoscenza. Ogni lavoro porta una conoscenza nuova, tramite un gioco di confronti che possiamo immaginare come una linea ascendente, di esperienza e di conoscenza.

Non trovo molta differenza fra un progetto commissionato da un ente pubblico o da privati. Potrebbe sembrare che i progetti privati siano più semplici perché si pensa che l’architetto non si debba misurare col pubblico o altri enti, ma la consa non è del tutto vera. In molti casi il palazzo verrà sempre “etichettato” con il nome dell’architetto che l’ha progettato, invece che quello del vero proprietario dell’immobile, specialmente se non riscuote molto successo.

 

Dopo la sua laurea in architettura al Politecnico di Milano, quando ha deciso di dedicarsi ad un approccio umanistico della disciplina, che è anche l’elemento distintivo dell’Accademia?

Il Politecnico di Milano non è una vera e propria università d’ispirazione tecnica; ha una forte influenza umanistica. Non esisteva un giusto connubio fra formazione umanistica e tecnica. Di conseguenza il Politecnico ha sfornato generazioni di architetti con menti raffinate ma con poca manualità, e io ho rischiato che succedesse anche a me. Al momento della mia iscrizione, negli anni ’80, ero decisamente più orientato verso la parte intellettuale, piuttosto che quella tecnica, e ciò mi portava enormi vantaggi ma anche grossi limiti. Infatti significava avere grandi idee, ma pochissima pratica nella progettazione concreta, cosa che ha fatto soffrire la mia generazione e quelle precedenti. Ho avuto poi la fortuna di entrare a far parte dello studio di Botta, dove ho collaborato con persone che avevano una formazione politecnica nel senso svizzero del concetto. La mia formazione è stata completata grazie al confronto con loro e alle discussioni intraprese. 

L’Accademia è un luogo dove esiste un perfetto connubio fra questi due mondi. E’ certamente di stampo umanistico ma nel frattempo offre agli studenti la possibilità di fare esercitazioni tecniche. Dal mio punto di vista, non siamo grossomodo poi così diversi dal Politecnico di Zurigo, anche se bisogna considerare che la tecnologia è importante nel campo dell’architettura come mezzo per raggiungere un fine. All’ETH a volte la tecnologia è qualcosa da sviluppare, senza prendere in considerazione il suo fine architettonico ultimo. Così si progettano macchine per costruire edifici senza però conoscere la loro reale applicazione. Diciamo che a loro piace calcolare le caratteristiche balistiche per posare i mattoni nel posto giusto, mentre a me interessa di più sapere ciò che si ottiene con i mattoni che vengono posati.

 

Due sedie disegnate da lei sono in esposizione permanente al MoMA di New York. Ritiene di essere più un designer, un architetto o entrambi?

Mi sarebbe piaciuto essere un bravo architetto, ma sono diventato un buon designer, e con gli anni sono riuscito a capirne il perché. Quando sono in “modalità designer”, ho il controllo diretto della fase di costruzione. Disegnare mi libera da tutti i calcoli astratti, e della stima del tempo di esecuzione della varie fasi del lavoro richieste in architettura. Costruire la mia sedia, ad esempio, è qualcosa che mi piace fare e che sento di voler fare veramente. Mi piace misurare il rapporto fra il peso e la resistenza della sedia inteso come oggetto, senza dover ricorre ai risultati di uno studio teorico.

 

Lei è noto per i progetti “coraggiosi” che realizza con i suoi studenti, come la Via Crucis alla Funicolare degli Angioli a Lugano nel 2016. Ci potrebbe raccontare dell’ultimo laboratorio con gli studenti chiamato “cimitero gonfiabile”?

Ho dovuto cambiare il nome del progetto perché mi sono reso conto che la parola “cimitero” era un pochino intimidatoria. Il progetto è ora chiamato “nomadi gonfiabili”. Se unisci la parola “nomade” a “gonfiabile” si crea una sorta di contraddizione. Il termine “nomade” si riferisce a qualcosa che puoi spostare, a differenza di un monumento che è per natura eterno, e fisso nel posto dove è stato costruito. Creare un monumento che possa essere portato in giro è strano, soprattutto se può essere gonfiato e sgonfiato, e di conseguenza fatto con un materiale estremamente leggero.

Lavorare con i paradossi è un metodo che mi piace molto utilizzare in ambito scolastico. Comprendere consa sia un monumento, costruirne uno, e lavorare con degli elementi che non appartengono alla sua vera essenza come ad esempio la mobilità e la possibilità di gonfiarlo. Tutto ciò ti conduce in un posto dove nulla può essere dato per scontato. La nostra scuola di architettura è secondo me bella proprio perché ti permette di sperimentare cose simili. Per fare un esempio: quando uno scienziato disse che il concetto di tempo non esisteva, aveva avuto inizialmente un’intuizione. Poi qualcuno ha scoperto un modo per misurarlo. E’ il dialogo costante tra cultura e civilizzazione che considera il tempo come un elemento costante, fino a che non arriva qualcuno che dimostra che invece è dilatabile. Mi piace lavorare in questo modo, e mi piace il fatto che viviamo in una società in cui l'arte contemporanea adotta spesso questo metodo. La maggior parte dell’arte contemporanea dovrebbe essere vista in questa prospettiva, come un esercizio.

 

La versione originale di questa intervista, in lingua inglese, è pubblicata sulla rivista Ticino Welcome n.060 (dicembre '18-febbraio '19), pp. 6-7

 

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