'Women, Meaning, Gravity' Intervista con Yvonne Farrell e Shelley McNamara di Valeria Molinari

Bocconi_©Federico Brunetti
Bocconi_©Federico Brunetti

Teatro dell'architettura

2 Aprile 2020

L'Accademia e il Teatro dell'architettura Mendrisio hanno il piacere di pubblicare l'intervista di Valeria Molinari "Women, Meaning, Gravity".

 

L’intervista a Yvonne Farrell e Shelley McNamara che qui presentiamo è stata realizzata da Valeria Molinari, studentessa dell’Accademia, come parte del suo elaborato teorico (Women, meaning, gravity. Understanding and reflecting on Yvonne Farrell and Shelley McNamara’s approach, gennaio 2020). Scopo dell’elaborato era quello di interrogare il pensiero delle architette alla luce di tre questioni fondamentali: l’identità di genere, il rapporto metalinguistico tra il costruire e il significare, il ruolo – spesso rimarcato dalle architette – della gravità in architettura. L’intervista attraversa tutte queste distinte questioni in una chiave autobiografica.
Prof. Matteo Vegetti, relatore dell’elaborato teorico

 

WOMEN, MEANING, GRAVITY. DIALOGO CON YVONNE FARRELL AND SHELLEY MCNAMARA

 
VALERIA MOLINARI: Siete due voci rilevanti nel dibattito architettonico di oggi. Credo che la vostra esperienza sia di grande importanza per noi, giovani architetti. C’è un evento che ha dato inizio al vostro percorso in architettura?

YVONNE FARRELL: Da bambina avevo la passione per il fare. Facevo delle scenografie in miniature di opere teatrali e balletti. Giocavo con lo spazio, ma non ero consapevole di che cosa fosse l’architettura. Non credo ci sia stato un momento preciso, è stato un percorso. Sono cresciuta in una casa che aveva un fronte rivolto sulla strada e l’altro che si apriva verso i campi. Ero a contatto sia con un contesto urbano sia con la natura. Crescendo mi sono accorta che l’architettura è una combinazione meravigliosa di matematica, geografia e cultura.

SHELLEY MCNAMARA: Non ho sempre voluto fare l’architetto. Sono cresciuta in una famiglia di costruttori. Sono sempre stata vicina all’ambiente edile: giunti e prototipi di sistemi costruttivi erano in giro per la casa. Poi quando sono cresciuta ho deciso di studiare architettura. E una volta che cominci, sei intrappolato, non puoi tornare indietro.

 

VALERIA MOLINARI: Quali architetti, filosofi o scrittori sono stati importanti per la vostra formazione?

YVONNE FARRELL: Quando io e Shelley siamo andati all’University College Dublin, abbiamo scoperto Le Corbusier. La sua influenza è stato molto importante. Eravamo affascinate dalla sua componente razionale ed emotiva, una capacità di visione e una un’abilità costruttiva.

Nella scuola di Architettura dove abbiamo studiato, alcuni professori e assistenti avevano lavorato con Mies Van Der Rohe, ma per noi Mies era troppo razionale e freddo.

SHELLEY MCNAMARA: Certamente Le Corbusier è stato per noi una guida, per la sua libertà e capacità di sviluppare progetti e idee radicali.

All’infuori dal campo architettonico, il lavoro di Thomas Mann è stato per me importante per la sua riflessione sulle forze irrazionali della psiche umana. Ho imparato molto anche da A. S Byatt, che nel suo romanzo Babel Tower, offre una visione straordinaria della struttura del linguaggio, qualcosa che mi è ancora d’aiuto quando rifletto sull’architettura.

 

VALERIA MOLINARI: Avete mai esplicitamente cercato dei modelli femminili?

YVONNE FARRELL: Penso di non aver cercato modelli femminili come tali. Essere irlandese è stato un grande vantaggio, non ci siamo mai sentite inferiori ai nostri colleghi maschi. Abbiamo sempre percepito un senso di equità, ma siamo state fortunate.

 

VALERIA MOLINARI: Il dibattito femminista tra architetti è stato particolarmente acceso tra gli anni ’80 e ’90, gli anni in cui voi vi siete laureate. Quali erano le vostre idee a quel tempo?

YVONNE FARRELL: Sembra ridicolo oggi, ma quando siamo arrivate al College, potevamo indossare i jeans, ma la generazione appena prima della nostra ha dovuto combattere per avere il diritto di portare i pantaloni. Penso che siamo state fortunate, che ci siano state donne più grandi di noi che sono state estremamente radicali. Le donne hanno ottenuto il voto in Irlanda molto presto. L’Irlanda è stata uno dei primi paesi ad avere una donna come rappresentante in Parlamento. Siamo state fortunate, come dicevo. Mi sembra che in certi cantoni svizzeri le donne hanno ottenuto il voto solo negli anni ’80-’90. Votare è molto importante. Dò molto valore al mio voto, perché so che ci sono state persone che hanno fatto grandi sacrifici prima di me per averlo.

Penso di venire da un paese che dà valore alle donne. Non voglio dire che l’equilibrio sia perfetto, ma non mi ricordo di aver mai pensato “in quanto donna, non posso fare questo o quello”. Qualsiasi cosa io volessi studiare c’era incoraggiamento sia da parte della famiglia che della scuola.

 

VALERIA MOLINARI: L’Architects Council of Europe (The architectural profession in Europe, 2018) mostra che le studentesse di architettura in Europa sono più del 50%, tuttavia quest’equilibrio non si riflette affatto nella dimensione lavorativa, dove il “gender pay gap” è intorno al 25%. Anche se consideriamo l’ambiente accademico, nel 2015-2016, solo il 31% dei membri dell’università (sia part time che full time) erano donne. Cosa ne pensate?

SHELLEY MCNAMARA: Penso che le donne debbano pretendere il diritto di essere uguali. Invece tendono a stare un passo indietro. Devono prendere coscienza dei propri diritti pienamente, essere più esigenti. C’è un bellissimo libro di Virginia Wolf, “Una stanza tutta per sé” (A room of  one’s own and three Guineas, 1929), in cui l’autrice cerca di spiegare le ragioni per le quali le donne sono state un passo indietro in letteratura. Uno dei fattori era la mancanza di un’indipendenza economica. Oggi la situazione sta migliorando, ma è difficile.

Direi che il campo dell’architettura è difficile per i giovani in generale. Nell’Unione Europea è molto complesso emergere sia per giovani uomini che per le giovani donne, a causa delle regolamentazioni molto severe.

YVONNE FARRELL: Sì, certo che ci sono stati miglioramenti. Ma non posso credere che ci siano ancora uffici che pagano le donne meno degli uomini; è assolutamente vergognoso. Penso che fino a quando le proporzioni non siano più equilibrate, ci dovrebbero essere forme di tutela a vantaggio delle donne. E’ un argomento delicato: in alcuni casi la gentilezza della donna porta a stare un passo indietro, così da lasciare altre persone andare avanti. La gentilezza è una forza, ma credo anche che richieda che le donne siano più sicure di se stesse per fare un passo avanti e essere coinvolte. Il testosterone rende le nostre vite differenti. Ci sono prove per cui quando le donne in studio hanno un ampio grado di libertà, l’ufficio ha molto successo. Sarebbe fantastico se le donne diventassero consapevoli del loro ruolo.

Il business dell’architettura è molto complesso, penso che il problema principale sia la gravidanza. La vita in famiglia e quella al lavoro sono in una sorta di conflitto. C’è bisogno di essere flessibili. Come può essere migliorata? Penso per esempio che qui a Mendrisio, ci dovrebbero essere più professoresse donne, ce ne sono poche oggi, dovrebbero essercene di più. Dobbiamo trovare un equilibrio, è molto importante sia  per la società che per la cultura.

 

VALERIA MOLINARI: Pensate che ci sia uno specifico contributo che le donne possono portare all’architettura?

YVONNE FARRELL:  Alejandro De La Sota descrive la placenta come il primo spazio dell’architettura, all’interno del quale si è contenuti.

Ma se stai chiedendo di contributi specifici, è interessante il fatto che spesso le donne sono molto brave ad ascoltare. La capacità di ascolto è una forma di contributo. Quando si ascolta si può provare a guardare le questioni da un diverso punto di vista.

Penso che uno dei più importanti aspetti dell’architettura sia l’empatia: provare a immaginarsi dall’altra parte, a sentire le cose in sintonia con gli interlocutori, anche se talora si può essere confusi dal sentire troppo, ma l’ascoltare valorizza l’architettura.

Noi, come architetti, siamo traduttori, perché cerchiamo di capire che cosa dicono le persone e a trasferire nel progetto ciò che abbiamo compreso. Per fare un esempio, penso che una donna architetta intuisca subito che la soglia della scuola è all’entrata, lì dove i genitori aspettano i bambini che escono. Certo anche l’architetto olandese Aldo Van Eyck ha parlato di questa forma di intelligenza spaziale, quindi non sono necessariamente le donne a possedere questa sensibilità riguardo alla vita che ci circonda. Forse a riguardo conta più la personalità di ciascuno che non la differenza tra uomini e donne. Dal punto di vista di una donna, cioè il mio, penso che noi donne siamo più attente al contesto, siamo più orientate verso la comunità, pensiamo naturalmente a noi stesse come “parte di”, e non come singolarità. In termini di contributi specifici, penso che le donne rappresentino un’altra voce, e dovremmo essere orgogliose di esprimerla. Penso anche - potrei sbagliarmi - che ci sia una particolare sensibilità all’interno della psiche femminile per il lavoro di gruppo; siamo portate a intendere il lavoro di gruppo come valore.

Non deve prevalere il protagonismo. Lavorare come un ensemble ha forza.

VALERIA MOLINARI: Voi ne siete una prova, avete dimostrato di essere una grande squadra. Insieme siete riuscite a far andare avanti l’ufficio per più di trent’anni. Come avete fatto?

YVONNE FARRELL: Io e Shelley siamo due personalità diverse, ed è interessante perché rende la nostra relazione dinamica. Provo un profondo rispetto per Shelley, è una donna di grande tenacia, in questi anni di lavoro ha sempre fatto in modo di mantenere gli standard alti. Ha l’ambizione di rendere il progetto il migliore possibile.

 

VALERIA MOLINARI: Tornando alla questione di genere, come la si affronta?

YVONNE FARRELL: Alle donne dovrebbero essere date più opportunità, e le donne dovrebbero saperle cogliere. Questa è una domanda molto importante perché fa emergere il tema dei pregiudizi esistenti.

Ancora oggi alcune persone vedono una donna in un gruppo e le chiedono di fare il tè, mentre questa persona potrebbe essere il presidente dell’azienda.

Recentemente abbiamo vinto un premio in quanto donne. All’inizio la nostra reazione è stata ambivalente, ma adesso ci sembra una cosa positiva. Se per anni e anni sono sempre stati gli uomini a essere riconosciuti e premiati, siamo orgogliose di aprire nuove porte.

La vita è migliore se uomini e donne sono in equilibrio. I due punti cruciali su cui lavorare sono: le opportunità e i pregiudizi.

Noi, come Grafton, siamo state molto fortunate in termini di opportunità. Le persone si sono fidate del nostro lavoro.

Vorrei aggiungere che nella vita quotidiana il supporto della famiglia e degli amici è molto importante. Noi donne con bambini abbiamo particolarmente bisogno di supporto pratico, psicologico e degli amici. Queste cose sono gli ingredienti essenziali della vita.Abbiamo anche bisogno di una certa dose di fortuna e del supporto delle persone che credono in noi. Si può avere grande talento ma non farcela per mancanza di opportunità, fortuna, supporto. Si deve sperare di avere un destino favorevole nella vita, lavorando con perseveranza.

 

VALERIA MOLINARI: Avete spesso espresso l’intenzione di cercare un significato (meaning) per i vostri progetti. Cosa intendete esattamente?

YVONNE FARRELL: penso innanzitutto al significato in senso linguistico, al potere delle parole. Credo che derivi dalla tradizione irlandese. In Irlanda abbiamo una tradizione orale molto forte. Sono affascinata dalla letteratura. Gli scrittori inventano un mondo intero con le parole. Quando si legge il libro, si è immersi in un mondo che diventa reale. Da ragazza, amavo le opere di Thomas Hardy, lo scrittore inglese, che tra l’altro era un architetto prima di diventare uno scrittore. Quando si legge il suo lavoro ci si accorge di quanto siano precise le descrizioni dei luoghi. Allo stesso modo i racconti di chi ha viaggiato descrivono con parole la loro esperienza fisica ed emotiva.

Come Grafton Architects, quando ci siamo dovute confrontare con un nuovo progetto come il Campo Universitario UTEC a Lima, cominciammo a immaginare un nuovo mondo per l’università. All’inizio abbiamo scoperto le scogliere di 40 m su cui Lima è costruita, così abbiamo pensato “e se facessimo una scogliera fatto dall’uomo, un campus universitario che si sviluppa in verticale, un’arena per imparare?”. Sono concetti e parole che ci hanno aiutato a immaginare il nuovo mondo, molto fisico, ma anche molto immaginario.

 

VALERIA MOLINARI: Come acquisite la consapevolezza che il vostro progetto abbia significato?

YVONNE FARRELL: L’architettura comincia dai bisogni, che implicano significato. E’ un argomento complesso. Prendo come esempio l’Università Bocconi a Milano. Nel sito della Bocconi era già stato progettato un edificio che aveva avuto l’autorizzazione per essere costruito. Penso che i committenti però fossero convinti che l’edificio non stesse comunicando abbastanza con la città,  e che sapessero di aver bisogno di qualcos’altro, così hanno dato il via alla competizione. In questo senso noi diciamo che l’architettura è una lingua che parla in silenzio.

Lavorando per il concorso avevamo dei bei disegni, dei bei prospetti e delle belle sezioni. Ma sapevamo che non stavano dicendo niente. Non sapevamo quale fosse il significato. Poi, lavorando sulla sezione, abbiamo alzato l’Aula Magna, e ci siamo accorti che così l’aula Magna diceva: “Ciao Milano”. Ci siamo accorti di aver scoperto qualcosa. Il significato arriva in maniera sempre diversa.

Con l’Università di UTEC a Lima avevamo moltissimi aspetti da prendere in considerazione. Abbiamo cercato di organizzare lo spazio in maniera funzionale. L’architettura è funzionale prima di tutto e poi ha una componente simbolica. Non tutto deve essere simbolico. Alcune cose sono ordinarie, e altre hanno una componente che colpisce, in inglese diciamo: “to hit the nail on the head”.

Anche nella sezione di UTEC, quando abbiamo sviluppato l’idea della scogliera fatta dall’uomo, ci siamo accorti che aveva in sé una coerenza, un DNA. Quella sezione per noi aveva un significato. E’ un po’ come la differenza fra storia e letteratura. Nella letteratura c’è qualcosa che scatta e che dà un altro valore alla storia.

Qual è la relazione tra significato e progetto? Da un lato il significato si cerca attraverso una storia inerente e coerente con il progetto, dall’altro si cerca il significato architettonico del progetto rispetto alla società. Il pubblico potrebbe non sapere questo, ma tutti siamo sorretti e circondati dall’architettura. Ecco perché noi pensiamo all’architettura come “new geography”.

L’architettura ha un significato, ha un impatto. Se si è circondati da una bella superficie è diverso che essere circondato da niente o da un edificio che non importa a nessuno. Penso che le persone lo percepiscano, anche se in alcuni casi non ne sono consapevoli. Mi viene in mente l’esempio della musica: anche se non si suona uno strumento ci si accorge quando stona. Probabilmente gli essere umani se ne accorgono anche con l’architettura. Tutto quello che è costruito dall’uomo ha significato. Alcune cose hanno un significato positivo altre invece risultano dannose per il proprio benessere.

 

VALERIA MOLINARI: Quale vostro progetto porta con sé il discorso più interessante?

YVONNE FARRELL: Questa è una domanda molto forte. Penso che ogni progetto che facciamo cerchi di capire quale sia il suo discorso. Abbiamo inaugurato recentemente il progetto a Tolosa di una School of Economics, che ha un discorso differente da quelli precedenti, è molto diverso per esempio dalla Bocconi. L’Università Bocconi è più razionale, ma la luce attraversa il rigore di entrambi gli edifici.

Cerchiamo qual è l’elemento più vitale del sito per poi portarlo all’interno progetto, per esempio, la materialità, la luce, la protezione dal sole, la comunità.

E’ bellissimo osservare come le persone utilizzano il progetto, una volta completato: a Tolosa si vedono i gruppi di studenti che insieme attraversano i ponti e scendono le scale per bere il caffè. Questo è ciò che dà significato all’architettura.

Speriamo che ogni progetto sia in grado di contribuire al contesto. Alcuni hanno più ingredienti di altri, che sono più modesti e silenziosi.

Speriamo che ogni progetto porti con sé un discorso architettonico. A Tolosa, mio cognato era in un taxi per andare all’aeroporto, e l’autista del taxi passando di fianco al nostro edificio, ha detto: “c’è un edificio laggiù, si vede che gli architetti si sono confrontati con la storia e con la modernità”. E’ stato molto gratificante. Anche durante l’inaugurazione della Bocconi è successo un evento analogo: una donna che non conoscevamo, non architetto, guardandosi intorno ha detto:“ la struttura è immensa, ma ti abbraccia”; anche questo momento è stato estremamente emozionante per noi, perché lei aveva capito precisamente che cosa noi - da architetti - volevamo far provare alle persone.. L’architettura è una lingua che dobbiamo imparare a parlare, alcune volte parla più chiaramente di altre.

 

VALERIA MOLINARI: Come comincia il discorso del progetto?

SHELLEY MCNAMARA: Penso che il discorso cominci dal luogo. Il discorso può essere creato semplicemente rispondendo al bisogno delle persone e del luogo. Siamo come dei detective, dobbiamo cercare indizi e trasformarli in progetti. Leggiamo spazi della città da quando abbiamo cominciato la nostra attività nel 1978. L’abbiamo fatto per diversi anni a Dublino. Continuiamo a essere affascinate dalle dinamiche della vita in città. Siamo interessate alla capacità dell’architettura come formatrice della vita urbana. Crediamo che l’architettura abbia la responsabilità di amplificare la cultura, di integrare passato e futuro, così che il passato non sia cancellato, ma appunto integrato, intrecciatoCome dice Alejandro de la Sota:“l’architetto dovrebbe fare il meno possibile”.

 

VALERIA MOLINARI: La capacità di creare un discorso, ha a che fare con un’intuizione o emerge poco alla volta?

YVONNE FARRELL: Penso che l’intuizione sia un importante ingrediente della vita.

L’intuizione è affascinante perché ha una componente emotiva.

L’intuizione ti fa sentire quello che non conosci.

L’intuizione è insieme rigorosa e organica.

Sto pensando alle pietre del mare che vengono levigate dal tempo. Allo stesso modo cerchiamo di lavorare con le nostre idee, in modo tale da ottenere una pietra arrotondata e morbida.

Riguardo alla tua domanda sul significato, penso che l’architettura sia una disciplina molto importante, perché ha la potenzialità di rendere il mondo migliore per tutti.

 

VALERIA MOLINARI: In Dialogue and Translation vi riferite spesso al tema della gravità, come intendete quest’idea?

YVONNE FARRELL: La parola gravità è intrigante. Io e Shelley abbiamo cercato di capire da dove venisse il nostro interesse per essa. Per quanto mi riguarda, mi ricordo di aver visto diversi anni fa un’incredibile esibizione di ballerini giapponesi al Dublin Theatre Festival. I ballerini si muovevano a malapena, ci si accorgeva che avevano cambiato completamente posizione solo dopo cinque minuti, definivano lo spazio, come se sconfiggessero la gravità.

In senso fisico, la gravità è l’energia della Terra che ci sorregge. Ho recentemente guardato il film Apollo 11, quando i due astronauti atterrano sulla Luna, laggiù non c’è quasi gravità. Osservandoli, si vede chiaramente quanto siamo fragili. La gravità è una delle cose che influisce in maniera profonda l’essere umano. L’architettura si confronta costantemente con la gravità. L’Università Bocconi per esempio, sembra avere peso, è ancorata a Milano. Il nuovo Campus Bocconi, progettato da SAANA è esattamente l’opposto, è leggero, bello ed elegante! Non penso che sia una questione di scelta: o l’uno o l’altro, gravità o non gravità.

 

VALERIA MOLINARI: Trovo interessante che voi sottolineiate spesso il doppio significato del termine gravità, che da un  ha un lato ha un’accezione fisica e dall’altro morale, ovvero riferita a comportamenti e azioni. Anche quest’ultima accezione si riflette nel progetto?

YVONNE FARRELL: Penso che ogni progetto d’architettura, anche piccolo, che sia un muro, una sedia, una porta, abbia la potenzialità di avere gravità e significato. Per esempio la seduta esterna con le piastrelle e il calcestruzzo di Jørn Utzon, all’esterno di Can Lis a Maiorca, su cui abbiamo lavorato insieme, comunica gravità e generosità. Penso che la gravità non abbia a che fare con le dimensioni, ma con la consapevolezza. Penso che se si ha la capacità di essere artigiano e allo stesso tempo di sviluppare il concetto, il risultato avrà un impatto reale. Hans van der Laan, un architetto e un monaco, ha fatto un bellissimo edificio la Roosenberg Abbey. Molto semplice, modesto, ma dotato di gravità. Non troppa luce, non troppa poca, ma in giusta quantità. Tutto dipende dal progetto: se fai qualcosa con troppa gravità, o con troppo significato, poi è troppo.

 

VALERIA MOLINARI: Si può pensare alla gravità anche come modalità per rispondere alla tendenza globale verso l’omologazione?

YVONNE FARRELL: Quando ci è stato chiesto di essere le curatrice della Biennale di Architettura di Venezia nel 2018, ci è stato detto di scrivere un Manifesto, abbiamo dovuto pensare a una lista di cose che noi consideriamo valori. Una delle più importanti, oltre alla generosità, era “la Terra come cliente”. Chiunque sia il nostro cliente, alla fine noi siamo in questo pianeta, in questa Terra fragile. Condividiamo tutti responsabilità. Se tu ti riferisci alla “gravità” della situazione, o alla gravità delle nostre responsabilità, noi abbiamo appena finito con gli studenti del secondo anno una ricerca sulle costruzione in legno e sulla progettazione di abitazioni auto-sufficienti nella Laguna di Venezia. E’ veramente parte della nostra ricerca quanto auto-sufficiente un progetto può diventare. La “gravità” della situazione è che le risorse del pianeta sono limitate. Non possiamo continuare a consumare materiali e a danneggiare l’atmosfera. Le implicazioni per l’architettura sono enormi. Stiamo facendo ricerca nel campo della costruzione in legno per sperimentare se possiamo utilizzare risorse rinnovabili, o riutilizzare gli edifici se possibile.

E’ una situazione grave e Greta Thunberg, questa ragazza di appena sedici anni, è una guerriera, è strepitosa, penso che rispetto alla conversazione di prima, dovresti intervistare lei!

 

VALERIA MOLINARI: “Essere consapevoli”, come pensate questo status possa essere sviluppato in architettura?

SHELLEY MCNAMARA: Penso possa essere sviluppato attraverso senso civico. L’architettura risponde a un bisogno civico, è un servizio. Quindi l’architetto dovrebbe mettersi al servizio degli altri, non essere narcisista. Gli architetti hanno il compito di immaginare scenari alternativi, rispondendo a problemi specifici della società di oggi. L’immaginazione porta all’ottimismo.

 

  

POSTSCRIPTUM

Il titolo della Biennale di Venezia del 2018, curato da Shelley McNamara e Yvonne Farrell, era Freespace. Nel Manifesto dell’evento si legge che l’idea “rappresenta la generosità di spirito e il senso di umanità che l’architettura colloca al centro della propria agenda”. Il valore della generosità e l’attenzione alla Terra sono gli elementi di coesione dei lavori di Grafton Architects. I progetti di Milano, Lima e Tolosa citati nell’intervista e l’invito ad accogliere la questione ecologica come una sfida epocale alla quale l’architettura è chiamata a rispondere, lo dimostrano al meglio.

Desidero ringraziare  Shelley McNamara e Yvonne Farrell per il tempo che mi hanno dedicato e per aver condiviso le loro esperienze, emozioni, opinioni. Anche questo un atto di generosità.

Valeria Molinari

 

Valeria Molinari sta terminando il programma di Master in architettura con l’Atelier Grafton presso l’Accademia di architettura –USI a Mendrisio. Ha svolto l’anno di stage obbligatorio presso lo studio berlinese dell’architetto Francis Kéré, partecipando alla progettazione del Serpentine Pavilion 2017 a Londra. Ha inoltre partecipato al programma di mobilità Erasmus presso l’EPFL di Losanna.

L’intervista si è svolta a Mendrisio il 20 dicembre 2019.